Ma dimmi chi tu se’. Incontrarsi dentro e fuori la Commedia di Dante
25/03/2021
La vicenda vissuta e narrata nella Commedia da Dante è una storia di incontri, gli incontri compiuti dal pellegrino nel […]
Incontri dentro e fuori la Commedia di Dante. Percorso digitale
Il tema dell’incontro nel capolavoro dantesco diventa occasione per guardare al testo e alla storia della sua trasmissione, ricezione ed influenza, da ambiti disciplinari diversi e di osservare quindi più da vicino alcune delle testimonianze offerte dalle raccolte della Biblioteca, che documentano la straordinaria e duratura fortuna dell’opera.
Incontri nel testo. Infedele Doré (di Riccardo Bruscagli) (1/4)
Nella Commedia la potenza evocativa degli incontri fra Dante pellegrino e le anime dannate, purganti, beate, risiede nella diversa modulazione della prossemica e dello spazio implicato in quegli incontri. Il gesto, il giuoco delle fisionomie, la collocazione reciproca dei corpi nello spazio accompagnano la voce come uno spartito di intensa fisicità, essenziale alla comprensione del testo, e anche al giudizio critico che il testo sollecita. In questo senso, la tradizione illustrativa che accompagna il poema – una fluviale attività di commento, ben degna di essere affiancata a quella dei chiosatori e dei commentatori per verba – rappresenta un reagente immediatamente suggestivo, che ci risospinge verso la lettera del testo, e suggerisce verifiche ‘di fedeltà’. In questo utile esercizio, la più vulgata e popolare impresa di illustrazione della Commedia, quella di Gustave Doré, si presenta come un miniera di casistiche esemplari e di esemplari infedeltà, che, per effetto contrario, obbligano a rimettere a fuoco l’invenzione dantesca, spesso banalizzata dal pur geniale illustratore proprio sul piano della grammatica degli incontri fra il Poeta e i suoi interlocutori. Immagini: Ritratto di Dante e Inf. IV, 94-96, in La Divina Commedia illustrata da Gustavo Doré, Milano, Sonzogno 1880 (BNCF, MAGL. 5.1.469).
Incontri nel testo. Un horror troppo ravvicinato! (di Riccardo Bruscagli) (2/4)
La bolgia dei seminatori di discordia (Inf. XXVIII) sfida nel suo orrore l’abilità di qualsiasi descrittore, anche eventualmente non obbligato alla rima, che «con parole sciolte» tentasse di raffigurare il «sangue» e le «piaghe» di questi sciagurati peccatori. I quali, con impeccabile contrappasso, come in vita divisero famiglie, comunità, religioni, così ora in morte vengono macellati da un diavolo che li «accisma…crudelmente»; salvo che poi le ferite si richiudono in attesa di essere altrettanto crudelmente e sanguinosamente riaperte. E allora ecco Maometto, «rotto dal mento infin dove si trulla»; Pier da Medicina, mutilato del naso, di un orecchio, la gola forata; Curione, «con la lingua tagliata ne la strozza»; Mosca de’ Lamberti, che alza «per l’aura fosca» della bolgia «l’un e l’altra man moza»; Bertram de Born, che tiene «per le chiome» il suo stesso capo decapitato «a guisa di lanterna». Ma tutto questo minuzioso repertorio di orrori è visto da Dante (e da Virgilio) da lontano, dal sommo del ponte che scavalca la bolgia e la trasforma in una sorta di spettacolo comprensivo, di distaccato diorama del male. E’ un’orchestrazione spaziale dell’incontro fra Dante e i dannati ben diverso da quello degli altri cerchi, che inibisce ogni rapporto di prossimità fisica con le anime di Malebolge. Tutti i personaggi, anche i più suggestivi, da Ulisse a Vanni Fucci, vanno immaginati visti dall’alto, ad una distanza che provoca diversamente le reazioni del pellegrino, ora esasperando, quasi per contrasto, la sua pietà (gli indovini), ora sollecitando una sorta di cinico stupore (i ladri, i falsari). La raffinata variazione è ignorata dall’infedele Doré: nella sua tavola, Dante non scruta la bolgia dall’alto del ponte; Bertram de Born non solleva verso lui (e Virgilio) la sua testa decapitata e parlante; i due visitatori si fanno largo, letteralmente, fra i corpi smozzicati dei seminatori di discordia. Con un’aggiunta horror che nel testo non c’è, e non ci poteva essere: quel braccio troncato che, investito di vita propria, afferra il lembo della veste di Dante. Una punta a effetto che sostituisce, alla distanza di uno spettatore paralizzato dall’orrore che vede, il disgusto fisico di chi quell’orrore, più banalmente, tocca; o meglio, da cui è toccato. Immagine: Inf. XXVIII, 123, in La Divina Commedia illustrata da Gustavo Doré, Milano, Sonzogno 1880 (BNCF, MAGL. 5.1.469).
Incontri nel testo. Virgilio e la sua ombra (di Riccardo Bruscagli) (3/4)
All’Inferno, il caso non si pone. All’Inferno sembra che non ci sia differenza fra il corpo di Virgilio e quello di Dante: stessa solidità, stessa piena, muscolare evidenza. Basta pensare alla conclusione dell’avventura di Dante e Virgilio nella bolgia quinta dei barattieri (Inf. XXI-XXII): quando i due visitatori, appena allontanatisi dai diavoli «‘mpacciati» nella pece, si accorgono che quelli stessi diavoli, imbestialiti per l’umiliazione subita, li stanno inseguendo «con l’ali tese…per volerne prendere»: donde la pronta reazione di Virgilio che, stretto il discepolo «sovra ‘l suo petto», si lascia rotolare giù sul fondo della bolgia successiva, dove i diavoli dei barattieri non hanno più legittima giurisdizione. Ma il regime del rapporto corporeo, fisico, fra Dante e Virgilio, muta radicalmente in Purgatorio. Qui, non più nel buio infernale, ma sotto il sole «roggio» del terzo canto, Dante si accorge con sorpresa che lui fa ombra, e Virgilio no: e tutto il dramma, fin qui ignorato o sottinteso, del “corpo fittizio”, emerge in superficie, e insinua nel racconto una tensione che modifica profondamente il rapporto fra il maestro e il discepolo, e l’atmosfera sentimentale degli incontri nella seconda cantica della Commedia. Qui, la visiva evidenza del fatto che Dante fa ombra, ed è vivo, è immediata, e scatena l’ansiosa richiesta di suffragi da parte delle anime penitenti: un regime di richieste, interrogazioni, inquisizioni, da cui l’antico poeta non può che rimanere estraneo. «Perché pur diffidi? […] non credi tu me teco e ch’io ti guidi?» Così un irritato Virgilio risponde alla reazione di Dante, che vista la sua sola ombra proiettata davanti a sé, sulla spiaggia del Purgatorio, ha temuto per un momento di essere rimasto solo. «A sofferir tormenti, caldi e geli / simili corpi la Virtù dispone / che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli»: la malinconia dell’esclusione dai misteri della Grazia cristiana avvolge il corpo penetrabile di Virgilio fin dall’inizio della seconda cantica, e ne fa, strutturalmente, uno spettatore dei nuovi rapporti e dei nuovi incontri fra un discepolo in via d’affrancamento e le anime purganti via via incontrate. Ma non per l’infedele Doré. Il quale, come si vede, non rinunzia a munire il suo Vigilio di una ben distinguibile ombra, non diversa da quella di Dante: gli mantiene uno statuto deuteragonista che, invece, la sacra montagna provvede a diminuire progressivamente; mentre si accentua, per contrasto, il pathos del rapporto fra i due visitatori, sempre vicini, sempre più distanti. Immagine: Purg. III, 57-60, in La Divina Commedia illustrata da Gustavo Doré, Milano, Sonzogno 1880 (BNCF, MAGL. 5.1.469).
Incontri nel testo. Una toga per Cacciaguida (di Riccardo Bruscagli) (4/4)
Arduo accettare, alla lettera, il radicale mutamento che la terza cantica apporta nel meccanismo del racconto dantesco. Arduo, per ogni lettore, rendersi conto di come Dante abbandoni in Paradiso quella evidenza mimetica, realistica, corporale, che era stata la sua forza di narratore nelle prime due cantiche: dove la collocazione dei personaggi in uno spazio concreto, prospettico si direbbe, e la relazione dei loro gesti, e perfino i dettagli delle loro fisionomie (gli occhi torti di Ciacco, la impassibilità fisiognomica di Farinata…) bastavano a caratterizzare memorabilmente gli incontri di Dante con le anime dell’al di là. Niente di tutto questo in Paradiso: dove le anime, «chiuse e parventi» nel loro bozzolo luminoso, azzerano ogni umana visibilità, e trasformano l’interazione col pellegrino in un giuoco di astratte luminescenze. Unica variante di questi incontri paradisiaci, il colore e il voltaggio delle luci: il pulsare balenante delle anime beate diviene l’unico diagramma leggibile delle loro emozioni, il solo spartito visibile che si accompagni alle loro voci, in quei dialoghi peraltro, essi stessi, per metà inutili, visto che i beati già leggono in anticipo, nella mente divina, le parole, e perfino i pensieri di Dante. Nessun lettore, e a maggior ragione nessun illustratore, si è mai arreso alla severa astrazione di un tale Paradiso. Non sarà dunque il caso di puntare con troppa severità il dito, questa volta, contro l’infedele Doré. E anche in questo caso le infedeltà e gli errori esaltano, per contrasto, il codice comunicativo prescelto dal Poeta, e, tentando di tradurlo in una accattivante visibilità, ne sottolineano il carattere chiuso e inaccessibile, negato ad ogni contatto che non sia un astratto alfabeto di luci e di suoni. Prendiamo allora, ad esempio, l’incontro di Dante con Cacciaguida: l’antenato che nel cielo di Marte ha il compito di profetizzare a Dante, in un chiaro quanto spietato ‘latino’, la realtà della sconfitta politica e della vita raminga che lo aspetta («Tu lascerai ogni cosa diletta/ più caramente…»). E’ un incontro carico di emozioni: dall’entusiasmo iniziale di Cacciaguida, quasi sopraffatto dalla gioia di accogliere in Paradiso un suo discendente («O sanguis meus, o superinfusa gratia Dei…»), alla nostalgica rievocazione della Firenze d’un tempo («Fiorenza entro da la cerchia antica…») al tono paterno e partecipe, ma senza indulgenze, con cui l’antenato prospetta a Dante la sua sorte futura. Ma il diagramma emotivo e sentimentale di questo incontro si esprime solo per via di segnali luminosi: dalla ‘perla’ che si sfila dalla croce degli spiriti guerrieri per presentarsi di fronte a Dante («che parve foco dietro ad alabastro…») al corruscare («quale a raggio di sole specchio d’oro…») provocato dall’impeto di carità con cui Cacciaguida si appresta a corrispondere alle inquiete domande di Dante circa il suo futuro. Ci dobbiamo meravigliare se Gustave Doré ce lo presenta davvero come un ‘antenato’, un vegliardo autorevole ammantato in una toga vagamente romaneggiante, e non come un puro bagliore paradisiaco? Dopotutto, altri non rinunciano a rivestirlo di cotta e maglia… Immagine: Par. XVI, 145-147, in La Divina Commedia illustrata da Gustavo Doré, Milano, Sonzogno 1880 (BNCF, MAGL. 5.1.469).
Incontri nel testo. L’incontro col conte Ugolino (Inferno XXXIII) (di Claudio Giunta) (1/1)
Alla fine del canto XXXII Dante e Virgilio trovano in una buca due dannati. La testa dell’uno sovrasta quella dell’altro («l’un capo a l’altro era cappello»), e Dante li coglie nel momento in cui il primo divora, come fanno gli animali feroci, il cranio del secondo. Il divoratore è il conte Ugolino, il divorato è l’arcivescovo Ruggieri. A Pisa, nel 1289, il secondo aveva fatto imprigionare il primo, suo avversario politico, insieme ai figli e ai nipoti; e li aveva fatti morire tutti di fame. Sono celebri i versi in cui Ugolino racconta di come si accorse di ciò che stava per succedere: "Già eran desti, e l’ora s’appressava/ che ’l cibo ne solëa essere addotto,/ e per suo sogno ciascun dubitava;/ e io senti’ chiavar l’uscio di sotto / a l’orribile torre; ond’io guardai/ nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto". È mattina, dovrebbe arrivare il cibo, invece Ugolino sente «chiavar l’uscio di sotto», cioè chiudere la porta della torre in cui sono rinchiusi: capisce che li faranno morire di fame, e ammutolisce. È una delle scene più tragiche del poema (ed è anche uno dei più lunghi racconti di morte che vi si possano leggere: della vita di Ugolino fuori del carcere Dante non dice niente), e splendidamente tragico è soprattutto il dettaglio del sentire: Ugolino sente un rumore distante, capisce che la porta viene chiavata, e ne deduce che è spacciato. Ma cosa significa esattamente, qui, il verbo «chiavar»? I commentatori si dividono. Alcuni pensano che significhi ‘chiudere a chiave’ (da clavis), altri – la maggior parte – pensano che significhi ‘inchiodare’ (da clavus). Qual è l’interpretazione giusta? Difficile dire. Chi propende per ‘inchiodare’ fa osservare che il verbo chiavare, nella Commedia, ha sempre questo significato; e soprattutto che la porta della prigione doveva già essere chiusa, altrimenti che prigione sarebbe? «Chiusa a chiave», annota per esempio Anna Maria Chiavacci Leonardi, «la porta sembra dovesse essere sempre». Ma a questa lettura possono essere mosse due obiezioni. La prima è che non si capisce bene per quale ragione, per far morire Ugolino e i suoi nella loro cella, fosse necessario inchiodare la porta di tutto il carcere-torre («l’uscio di sotto»). E i reclusi delle altre celle? E anche se altri reclusi non ci fossero, perché mai i carcerieri avrebbero dovuto fare un gesto così vistoso e insieme così inutile, un gesto che avrebbe impedito a tutti – carcerieri e carcerati – di entrare e uscire dalla torre? La seconda obiezione è che – basta fare un salto al Bargello per vederlo – i portoni medievali non avevano soltanto la serratura: avevano anche un paletto, che si poteva chiudere o non chiudere anche con la chiave (una chiave pesante, voluminosa, non un attrezzo che si portasse comodamente nelle tasche, come oggi). E dunque, non è meglio pensare che «l’uscio di sotto» della torre fosse già chiuso col paletto e che quella mattina i carcerieri, anziché aprirlo, abbiano fissato il paletto con un giro di chiave, destando la giusta preoccupazione di Ugolino? Immagini: Dante Alighieri, La Divina Commedia, con le chiose volgari di Jacopo di Dante, e volgari e latine d' altri, ms., sec. XIV (BNCF, Palatino 313, ff. 77r/v).
Incontri nello scrittoio. Dante e Belacqua nelle chiose di Andrea Lancia (di Luca Azzetta) (1/1)
Nella prima balza dell’Antipurgatorio (Purg. IV) sostano le anime di coloro che, a causa della loro pigrizia, tardarono a pentirsi fino al limite estremo della vita. Improvvisamente un’anima si rivolge a Dante con bonaria ironia (vv. 97-99). Solo al v. 123 sapremo che si tratta di Belacqua: un personaggio di nessuna notorietà, che non avrebbe lasciato traccia di sé nella storia se Dante, che ne fu amico, non ne avesse ricordato il nome. Eppure per chi visse nella Firenze di Dante, o di pochi anni dopo, Belacqua fu una persona con una ben precisa identità. Il notaio fiorentino Andrea Lancia, autore di un commento alla Commedia in volgare che oggi si conserva in forma autografa (1341-1343 c.), in una glossa preziosa a questi versi rivela un mondo di amicizia e convivialità, e insieme svela l’origine di un soprannome: Belacqua fu «huomo di corte […] che dal fatto trasse il nome: non bevé mai vino. Fue optimo sonatore di strumenti musichi, maximamente di chitarra, e in questo puose tutto suo intento. Et l’autore e io che chioso il vedemmo». Dalle carte antiche di un manoscritto emerge così un’immagine di quella Firenze in cui il giovane Dante scriveva poesie, l’amico Casella le intonava (Purg. II) e Belacqua le accompagnava con la chitarra. Nell’incontro ultraterreno rivive per noi, mediato dal Lancia, il frammento di un mondo lontano. Immagine: Dante Alighieri, Commedia, con un commento e note marginali, ms, sec. XIV (BNCF, Fondo Nazionale, II.I.39, f. 74r).
Incontri nello scrittoio. Dante incontra un libro nuovo (anzi, antico) (di Teresa De Robertis) (1/1)
Come parla ancora a noi, con una voce potente e nitidissima, Dante ha parlato nel tempo a lettori sempre nuovi, che hanno riprodotto il testo del suo poema (o hanno incaricato altri di farlo) in forme via via diverse, adatte ai tempi. Così ha fatto verso il 1410 il notaio ser Luigi di ser Michele Guidi (1391-1461) che in questo codice immagina e ci presenta (ed è la prima volta) un Dante umanistico. Ser Luigi ha usato per questa Commedia una scrittura che nella Firenze del Quattrocento era detta “antica”, perché osservata in libri di due-tre secoli prima e imitata (così come la decorazione) per dare un aspetto diverso ‒ nuovo e insieme antico – a libri destinati a lettori raffinati. Libri, però, particolari: contenenti opere di autori classici (Cicerone, Cesare, Virgilio, Seneca ecc.) e padri della Chiesa (Agostino, Lattanzio ecc.), sempre in latino. Copiare Dante nella stessa scrittura usata per Cicerone, Virgilio o Agostino significava, nei primi anni del Quattrocento, parificarlo a quei sommi autori, considerarlo un classico, riconoscendo al tempo stesso l’altissima dignità della poesia volgare. La miniatura sulla pagina di sinistra (la montagna del purgatorio, con Virgilio e Dante accolti da Catone) è di un artista diverso (legato a modelli più tradizionali, addirittura attardati) rispetto a quello che ha eseguito l’iniziale P nella pagina di destra. Il manoscritto è appartenuto al potente banchiere Francesco Sassetti (1421-1490): le note in scrittura corsiva, in rosso, sono dell’umanista Bartolomeo Fonzio (1446-1513), suo bibliotecario. Immagini: Dante Alighieri, Divina Commedia, ms., sec. XV inizi (BNCF, Banco Rari 215, ff. 78v-79r).
Incontri nello scrittoio. «Ridon le carte»: il testo dantesco e le immagini miniate nel Palatino 313 (di Francesca Rosa Pasut) (1/3)
Manoscritto di fama indubbia, già valorizzato dagli eruditi antichi, il Palatino 313 conserva il testo completo della Commedia, accompagnato da un apparato di glosse disposte in una complessa mise en page a cornice. Dall’incontro tra testo e commento deriva il rilievo storico del testimone negli esordi dell’esegesi dantesca. Ma l’allestimento del volume, promosso in un atelier fiorentino tra terzo e quarto decennio del Trecento, coinvolse anche un gruppo di artisti operosi nel settore della decorazione libraria, che in quegli stessi anni registrava a Firenze una fitta e inedita produzione di copie miniate della Commedia. In questo contesto il Palatino 313 è un vero e proprio unicum: il progetto editoriale fu sicuramente sperimentale e non venne concluso secondo l’idea originaria, determinando oggi la difficoltà di comprendere in modo univoco certi complessi aspetti intrinseci del manoscritto. Cronologicamente il Palatino 313 è il primo manoscritto fiorentino della Commedia conservato per il quale è possibile parlare di un’illustrazione integrale delle cantiche: una scelta intrapresa con entusiasmo ma purtroppo abbandonata in corso d’opera per ragioni a noi ignote. L’Inferno è interamente illustrato con 32 riquadri miniati, mentre il Purgatorio e il Paradiso presentano sporadici interventi pittorici. L’artista di punta coinvolto nell’impresa è Pacino di Bonaguida, documentato a Firenze nella prima metà del Trecento, attivo insieme ad almeno un altro valente miniatore anonimo. Immagine: Dante Alighieri, La Divina Commedia, con le chiose volgari di Jacopo di Dante, e volgari e latine d' altri, ms., sec. XIV (BNCF, Palatino 313, f. 1r).
Incontri nello scrittoio. La testa di Cavalcante (di Francesca Rosa Pasut) (2/3)
Le illustrazioni di Pacino e del suo atelier non hanno caratteri di virtuosismo estremo, ma sono contraddistinte da una semplicità nel riprodurre spazi e contesti. Ciononostante, il loro potere evocativo è molto forte e tocca anche il lettore contemporaneo, che può così rivivere attraverso l’esperienza visiva gli innumerevoli incontri descritti da Dante con i leggendari custodi dell’Oltretomba, demoni e figure mitologiche, o con la schiera assai varia dei dannati sottoposti alle pene. Osserviamo ad esempio l’immagine iniziale di Inf. X (f. 23v), canto dedicato agli eretici: Dante e Virgilio camminano a ridosso delle mura di cinta della città di Dite (v. 2) e arrivano tra gli avelli infuocati e scoperchiati, cui nessuno fa guardia (vv. 7-9). Dal secondo sepolcro si erge volitiva la figura a mezzo busto di Farinata degli Uberti («“Vedi là Farinata che s’è dritto:/ da la cintola in su tutto ‘l vedrai”./ Io avea già il mio viso nel suo fitto;/ ed el s’ergea col petto e con la fronte/ com’avesse l’inferno a gran dispitto», vv. 32-36). Dal sepolcro alle sue spalle Pacino fa sporgere la testa di Cavalcante dei Cavalcanti, descritto esattamente come nella Commedia, con il mento poggiato alla superficie della tomba: «Allor surse a la vista scoperchiata/ un’ombra, lungo questa, infino al mento:/ credo che s’era in ginocchie levata», vv. 52-54. Immagine: Dante Alighieri, La Divina Commedia, con le chiose volgari di Jacopo di Dante, e volgari e latine d' altri, ms., sec. XIV (BNCF, Palatino 313, f. 23v).
Incontri allo scrittoio. Il morso di Minosse e la selva dei suicidi (di Francesca Rosa Pasut) (3/3)
In taluni casi è davvero sorprendente la perspicuità con la quale Pacino e i suoi collaboratori, pur semplificando estremamente la narrazione, includono nelle scene dettagli figurativi che trovano illuminanti corrispondenze con il testo. Colpisce per esempio come nell’incontro con il Minotauro (Inf. XII), che assume le sembianze di un centauro, seguendo l’iconografia prevalente nelle miniature dantesche, l’essere mostruoso si morda con rabbia la mano destra alla vista di Dante e Virgilio, con preciso rinvio al testo: «e quando vide noi, sé stesso morse» (Inf. XII, v. 14). Suggestiva traduzione dei versi è inoltre la rappresentazione del paesaggio della selva dei suicidi (Inf. XIII): un luogo desolato, dove dominano «Non fronda verde, ma di color fosco;/ non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti;/ non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco» (vv. 4-6). Sui tre alberi a destra spiccano le Arpie (vv. 10-12), con ali, ventre pennuto, colli e visi umani e artigli ai piedi, e il gesto di Dante di spezzare un ramoscello di pruno, da cui fuoriesce il «sangue bruno» di Pier delle Vigne (vv. 31-34), assume una pregnanza notevole. Non sempre i particolari che abbiamo evidenziato ricorrono negli altri manoscritti miniati della Commedia confezionati nella stessa epoca, segno che l’eccezionalità del Palatino 313 è anche in ciò, nell’essere un modello esemplare del fervido incontro tra il testo dantesco e le immagini chiamate a illustrarlo. Immagini: Dante Alighieri, La Divina Commedia, con le chiose volgari di Jacopo di Dante, e volgari e latine d' altri, ms., sec. XIV (BNCF, Palatino 313, ff. 28r, 30v).
Incontri nello scrittoio. Dante e Brunetto Latini nel Palatino 313 (di Luca Azzetta) (1/1)
L’allestimento di un codice complesso come il Palatino 313 realizza l’incontro tra i versi di Dante, disposti su due colonne, le chiose di commento nei margini e l’illustrazione. Per questo è necessaria la collaborazione di persone diverse. Chi copiò il testo e le chiose lasciò infatti uno spazio a inizio canto in cui il miniatore potesse illustrare i versi del poema. La maggior parte delle vignette è opera di Pacino di Bonaguida, a cui si devono le illustrazioni di almeno 25 Commedie. Nel Palatino 313 la miniatura che visualizza l’incontro tra Dante e Brunetto Latini in Inf. XV presenta un elemento singolare. Infatti, benché i versi di Dante non ne facciano cenno, Pacino raffigura Brunetto e Dante che si tengono per mano. Si tratta dell’unico incontro fisico tra Dante e un’anima dannata; solo Virgilio infatti, maestro e guida, in alcune immagini tiene per mano il poeta (Inf. III, XVII, XXII); a loro si aggiunge in un caso Beatrice, guida in Paradiso (Par. I). Pacino dunque traduce visivamente con questo tocco personale l’incontro carico d’affetto tra Dante e il maestro della sua giovinezza. Il fatto che solo Brunetto, Virgilio e Beatrice siano accomunati da questo gesto nei confronti di Dante sembra alludere al fatto che per Pacino “prendere per mano” è tratto distintivo di una guida e di un maestro. Immagine: Dante Alighieri, La Divina Commedia, con le chiose volgari di Jacopo di Dante, e volgari e latine d' altri, ms., sec. XIV (BNCF, Palatino 313, f. 35v).
Incontri in tipografia. Dante incontra Landino (e Botticelli) (di Sebastiano Gentile) (1/1)
La Commedia con il commento di Cristoforo Landino, finita di stampare il 30 agosto 1481 da Niccolò di Lorenzo, venne offerta dall’umanista alla Signoria in un incontro solenne, una cerimonia, intesa a celebrare il ritorno di Dante nella sua patria d’origine: era il frutto di un’impresa tipografica imponente, sia per la mole del libro sia per la tiratura prevista, di 1125 esemplari. La copia consegnata allora a Palazzo Vecchio, conservata in BNCF, è solenne, in pergamena, miniata e con legatura impreziosita da ‘nielli’. Ma non reca traccia delle illustrazioni che contraddistinguono questa edizione della Commedia, la prima pubblicata a Firenze. Il progetto prevedeva una vignetta al principio di ciascun canto per tutte e tre le cantiche; le incisioni su rame, ci informa Giorgio Vasari, sarebbero state effettuate da Baccio Baldini con «invenzione e disegno» di Sandro Botticelli. Un piano forse troppo ambizioso, che non fu completato: i diversi esemplari hanno un numero variabile di illustrazioni, da nessuna fino a un massimo di diciannove, tutte presenti in un altro esemplare della BNCF. Nella prima vignetta – curiosamente in due copie nell’incunabolo in questione – sono fissati quattro momenti: Dante, assonnato, raffigurato nella selva, ne esce e gli si parano davanti le tre fiere; assalito dalla terza fiera fa per voltarsi, come per tornare nella selva e incontra il suo salvatore, Virgilio. È dunque un’illustrazione ‘in movimento’, che fissa gli episodi salienti del canto, secondo la medesima tecnica utilizzata da Botticelli per il famoso e monumentale manoscritto della Commedia commissionato da Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, oggi diviso tra la Biblioteca Apostolica Vaticana e il Kupferstichkabinett di Berlino. Immagine: Dante Alighieri, La Commedia, comm. Cristoforo Landino, Firenze, Niccolò di Lorenzo, 30 agosto 1481 (BNCF, Banco Rari 12, c. a1r).
Incontri in tipografia. Dante in filigrana (di David Speranzi) (1/1)
In una esistenza impiegata alla ricerca della pagina perfetta, con un equilibrio tra bianco e nero, tra solco e rilievo, tra liscio e ruvido, che restituisca al lettore il vero respiro del testo nello sguardo, nella mente e nelle mani, Alberto Tallone, il principe dei tipografi contemporanei, incontrò più volte la Commedia. Del testo dantesco realizzò varie edizioni, tra cui l’ultima sua: scomparve nel 1968, dopo aver pubblicato ad Alpignano Inferno e Purgatorio secondo il testo di Giorgio Petrocchi, lasciando già composto il Paradiso, che fu poi stampato dalla moglie Bianca. Degli esemplari danteschi prodotti da Tallone la BNCF possiede forse la raccolta più completa al mondo. Uno di questi, in tre volumi usciti a Parigi tra il 1939 e il 1941, come ricorda lo stesso Tallone, fu esposto sia a Roma sia a Londra in occasione del centenario del 1965 e reca fin nella prima materia il nome dell’Alighieri: fu stampato su carta prodotta dalle manifatture di Rives con una filigrana creata per l’occasione, costituita dal nome DANTE. Immagini: La Divina Commedia di Dante Alighieri, [a cura di Francesco Flora], I, Parigi, Alberto Tallone, 1939 (BNCF, Tallone 178).
Incontri in tipografia. I tre Dantini della BNCF (di David Speranzi) (1/1)
Nella primavera del 1878 il visitatore della III Esposizione Universale di Parigi poteva incontrare un Dante decisamente singolare, che tanto per le dimensioni (mm 53 × 32 × 21) quanto per i caratteri minutissimi, detti “occhio di mosca”, può considerarsi uno dei più piccoli al mondo. In 499 pagine di 30 linee ciascuna, la tipografia patavina dei Fratelli Salmin era riuscita a racchiudere i 14223 endecasillabi della Commedia nelle proporzioni di una scatola di fiammiferi o di un grosso cioccolatino. L’impresa di incidere un set di caratteri così microscopici era riuscita nel 1834 ad Antonio Farina, ma all’editore Gnocchi di Milano erano occorsi decenni per trovare qualcuno in grado di comporre il volume. Le maestranze dei Salmin lo realizzarono infine in cinque anni e al costo di gravi malattie agli occhi per il compositore, il correttore e il macchinista. Il set tipografico fu distrutto dopo la tiratura in mille esemplari. Cinquantuno di questi furono acquistati da Ulrico Hoepli, che li ripubblicò un anno più tardi a proprio nome, dopo averli arricchiti con un nuovo frontespizio e trenta illustrazioni. L’emissione di Gnocchi è conservata accanto a quella di Hoepli nel Banco Rari 343; un’altra copia della prima, meno nota, è tra le Edizioni minime, in una raffinata scatola di legno intarsiato. Immagini: Dante, La Divina Commedia, Padova, Fratelli Salmin, 1878 e Milano, Hoepli, 1879 (BNCF, Banco Rari 343/I-II e Edizioni Minime II/11).
Incontri in tipografia. La Commedia illustrata coi rami di Luigi Ademollo (di Matteo Ceriana) (1/2)
Nel 1817 era stampato a Firenze il primo volume di una lussuosa edizione in folio della Commedia dantesca, l’Inferno illustrato con 44 grandi incisioni da disegni di Luigi Ademollo. L’impresa editoriale assai impegnativa, patrocinata anche dal grande erudito e archivista vaticano Gaetano Marini, si fregiava della dedica al maggiore artista vivente, Antonio Canova, verso il quale l’illustratore aveva non solo una reverenza morale e artistica, ma anche un qualche debito figurativo, condividendone lo stile eroico e severo e la resa del tema cristiano con un linguaggio figurativo tratto da modelli antichi, greci e romani. Si trattava di immagini da Foscolo considerate «esagerate e a tratti volgari», forse perchè improntate a un gusto declinante a favore di modi più graziosi, ornati e moderni che saranno quelli dell’illustratore del Paradiso, Francesco Nenci (1781-1850). Ademollo scriveva in quello stesso 1817 allo scultore veneto che l’illustrazione dantesca serviva a «tirare partito…per mantenere la famiglia», ma in verità la qualità e la quantità di disegni dimostra che il suo efficacissimo e facondissimo talento narrativo aveva affrontato la poesia dantesca come prova certo difficile ma appagante. Oltre a eseguire i disegni verosimilmente da lui stesso raccolti nel prezioso album della Biblioteca Nazionale di Firenze che ce li ha conservati (N.A. 706), aveva tradotto su rame per la stampa la maggior parte delle tavole, forse insoddisfatto dal pur impeccabile ma fin troppo elegante mestiere di Giovanni Paolo Lasinio. A illustrare l’episodio forse più straziante dell’intero poema, il racconto del Conte Ugolino (Inf. XXXIII, 4-75), i curatori e Ademollo dedicano - caso unico in tutto il poema - tre tavole, per le quali il pittore prepara ben cinque disegni tutti conservati nell’album, due tra quelle scartati: il tragico soggetto ebbe d’altronde un’ampia fortuna figurativa nella prima metà dell’Ottocento. Nelle varie fasi di progettazione variano soprattutto il raggruppamento dei personaggi o il punto di vista, fino a trovare un assetto definitivo; per il verso 49 la composizione delle figure - non immemore del modo di comporre sintetico e solenne dei bassorilievi canoviani con la Morte di Socrate – rimane immutata, ma nel passaggio alla lastra incisa dall’artista stesso, mette in scena un forte contrasto luministico che visualizza il contenuto tragico della scena. Immagini: Luigi Ademollo, Disegni originali composti per l'"Inferno" e il "Purgatorio" della "Divina Commedia", ms, sec. XIX (BNCF, Nuove Accessioni 706, f. 40); La Divina commedia di Dante Alighieri con tavole in rame, Firenze, nella tipografia All'insegna dell'ancora, 1817-1819, (BNCF, MAGL. 2._.19, tav. XLI ).
Incontri in tipografia. Cinque disegni dal ms N. A. 706 per il conte Ugolino (di Matteo Ceriana) (2/2)
Cinque disegni dell’album contenente i "Disegni di Luigi Ademollo per l’illustrazione della Divina Commedia" (ms N.A. 706) illustrano l’episodio del Conte Ugolino (Inf. XXXIII, 4-75). Oltre a quello dedicato alla raffigurazione del verso 49 (incontrato nella scheda precedente), nelle due ulteriori tavole (verso 61, verso 75) il compito arduo era quello di descrivere il raccapricciante finale senza rischiare il grottesco più che l’orrore della tragedia. Per non calcare la mano la seconda scena rinunzia infatti ad effetti luminosi troppo contrastati. A sua volta la chiusa dell’episodio riprende l’invenzione della tavola inserita nella di poco anteriore edizione illustrata da John Flaxmann (Roma 1802), certo la maggiore a stampa di quegli anni: il groviglio di corpi atterrati e disegnati dall’inglese “in the beautiful Gotich Taste” [in un bel gusto gotico], è squadernato in una visione dall’alto che discopre tutta la devastazione di quei corpi senza vita sui quali il padre si trascina famelico, e che un tratto denso e chiaroscurato rende plastici, veri. Immagine: Luigi Ademollo, Disegni originali composti per l'"Inferno" e il "Purgatorio" della "Divina Commedia", ms, sec. XIX (BNCF, Nuove Accesioni 706, f. 42).
Un incontro speciale. Dante donato da Paolo VI alla BNCF (di David Speranzi) (1/1)
La tradizione di segnare incontri importanti col dono di un libro ha radici antiche e non poche sono state le visite ufficiali, le relazioni e le amicizie segnate dal regalo di un esemplare della Commedia. Il 4 novembre del 1966 Firenze sfigurata dalla furia dell’Arno si presentò al mondo come un lago ammantato di tenebre, quasi infernale visione dantesca. Cinquanta giorni più tardi, vi giungeva Paolo VI, per celebrare in Duomo la messa di Natale. Tra i doni lasciati nell’occasione da papa Montini alla città di Firenze, fu destinata alla Nazionale anche una copia dell’edizione fac-simile dell’Urb. lat. 365, raffinatissimo codice allestito per Federico da Montefeltro. Il volume era apparso nella serie dei Codices e Vaticanis selecti phototypice expressi l’anno precedente, anno del centenario dantesco, della lettera apostolica Altissimi cantus e della conclusione del Concilio Vaticano II, un incontro destinato a cambiare la storia. Firmato dal pontefice, l’esemplare fu collocato tra i rari moderni della Biblioteca che, grazie agli aiuti provenienti da tutto il mondo, cominciava allora il faticoso viaggio che l’avrebbe condotta a riveder le stelle. Immagini: fac-simile con firma autografa di Paolo VI, Il Dante Urbinate della Biblioteca Vaticana. Codice Urbinate latino 365, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1965 (BNCF, 62.a.9).
Incontri con la musica. DANTE IN MUSICA: canzoni e un valzer d’amore nascosto in un sonetto (di Federico Bonetti Amendola) (1/1)
Il compositore e autore di teatro musicale Federico Bonetti Amendola realizza per l'occasione il documentario qui proposto, strutturato in tre momenti. La prima canzone sinfonica per baritono e orchestra è “Nel mezzo del cammin”: la musica vuole evidenziare l’angoscia del buio, dello smarrimento e dell’amarezza presente nei testi cantati, tratti dal canto I dell’Inferno e dal XVI del Purgatorio. La seconda canzone è “Ulisse”, con testi tratti dal XXVI Canto dell’Inferno, divisa in tre movimenti. Il primo è connotato da un ritmo incalzante, quando Ulisse persuade i compagni ormai «vecchi e tardi» a seguirlo nel suo «folle volo» oltre i limiti del mondo. Nel secondo un notturno, con ritmo statico e congelato, per quella lunghissima navigazione nell’oceano sconosciuto dove nulla sembrava avvenire. Infine, un improvviso sussurro inquieto del mare introduce la terza parte: il ritmo ossessivo torna quando i naviganti avvistano la montagna altissima all’orizzonte, ma il «turbo» improvviso si leva nel mare e inghiotte tutti quanti. “Dante e l’amore” è l’ispirazione per la terza canzone: nascosto nel ritmo dei versi del sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare” il compositore ha sentito… un valzer! Le musiche riprodotte in questo video, registrate in concerto a scopo documentale, sono cantate da Giuseppe Naviglio con l’orchestra Amici della Musica di Cortona diretta da Pierangelo Gelmini. © Musica: Federico Bonetti Amendola – SIAE; immagini dei manoscritti: BNCF; copertina, riprese e montaggio video: Ilaria Innocenti. Il video è sul canale YouTube di BNCF: https://youtu.be/TmF56k65K88 (il link è attivo nella pagina di descrizione dell'iniziativa alla voce "video documentario")
La vicenda vissuta e narrata nella Commedia da Dante è una storia di incontri, gli incontri compiuti dal pellegrino nel suo viaggio oltremondano, ma anche quelli incorsi al poema lungo le vie della sua trasmissione. Così agli incontri nel testo, che vedono Dante a confronto coi dannati, con le anime purganti e coi beati, si affiancano quelli nello scrittoio e in tipografia; tutti i momenti cioè che nei secoli hanno visto copisti, commentatori, stampatori, lettori, possessori, illustratori e persino musicisti confrontarsi con la Commedia. Si innescano così spesso ‘circuiti fantastici’ tra testo, vita e immagine, destinati a produrre capolavori – di manifattura libraria e non solo – conservati nelle collezioni della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
Grazie al contributo di studiosi di ambiti disciplinari differenti, nel percorso proposto di seguito sono illustrati alcuni degli infiniti incontri possibili, da cui prenderà spunto nel corso dell’anno un ciclo di incontri on line, per generare ulteriori occasioni di confronto attorno a Dante e alla sua opera.
Progetto, ideazione e coordinamento: Simona Mammana, David Speranzi
Testi: Luca Azzetta, Riccardo Bruscagli, Matteo Ceriana, Teresa De Robertis, Sebastiano Gentile, Claudio Giunta, Francesca Rosa Pasut, David Speranzi
Intervento musicale conclusivo: Federico Bonetti Amendola (video documentario)
Immagini: Leonardo Frassanito, Stefano Lampredi, Simona Mammana, Mario Setter
Ringraziamenti: mons. Cesare Pasini, Sergio Biagini e Chiara Storti
È possibile sfogliare le digitalizzazioni complete dei codici ed incunaboli a cui fanno riferimento le schede:
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